IL TALENTO È SOLO IL PUNTO DI PARTENZA

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Il 4 marzo, anniversario della nascita di Antonio Vivaldi, è la data ideale in cui celebrare la musica nelle scuole, nel giorno del compleanno di un personaggio che ha fatto la storia della cultura italiana, in uno scenario artistico ma anche sociale, dedicando diversi anni della sua carriera all’insegnamento.

Dal 1703 al 1740, sia pur non continuativamente e con periodi di assenza, Vivaldi ricoprì diversi incarichi musicali presso l’Ospedale della Pietà, un’istituzione di carità destinata all’istruzione musicale di ragazze orfane, svolgendo l’incarico di maestro di violino al fine d’innalzare il livello di preparazione delle orchestrali.

Di sicuro “il prete rosso” (così il musicista era soprannominato dopo il sacerdozio, grazie al colore della sua capigliatura) ha messo a disposizione del prossimo un talento immenso, non dimenticando, però, che la maggior parte delle sue numerosissime composizioni furono scritte proprio per le “sue” allieve, le quali, instancabili, hanno contribuito a portare in auge il nome di colui che oggi conosciamo come uno dei più grandi artisti della nostra storia.

“Fattore talento” e “Logica del talento”

Quando si contempla un artista (o uno sportivo), la facilità con la quale si esprime attraverso il suo linguaggio, si resta ammirati di fronte a ciò che appare come un autentico talento naturale. Più difficile, però, capire esattamente in cosa consista quel dono che Madre Natura sembra elargire a pochi fortunati.

Certo, interrogarsi sul significato del talento nell’era dei talent sembra quasi un paradosso. Cosa c’è da capire? Se l’individuazione precoce è costantemente a caccia di giovani promesse, è chiaro che sappiamo bene di cosa stiamo parlando. Quel qualcosa, iscritto nei nostri geni, che alcuni pensano di poter riconoscere fin dalla più tenera età anche grazie ai progressi della scienza e che, in un tempo non troppo remoto, si potrà forse progettare in laboratorio. Ma è davvero così?

Due aspetti meriterebbero di essere meglio approfonditi. Innanzi tutto il valore del fattore talento e, in secondo luogo, il significato di quella che potremmo chiamare la logica del talento. Provo, brevemente, a offrire qualche suggestione riguardo a questi due concetti.

Quanto al primo: cosa significa, davvero, “avere talento”? E qual è il suo “peso specifico”? Non vi è dubbio che la predisposizione naturale sia un ingrediente importante nella ricetta per il successo. Ma, appunto, un ingrediente, non l’unico. In questa accezione la parola “talento” nomina infatti quelle qualità che, senza merito, ereditiamo alla nascita; doni, fisici e mentali, che chiedono di essere messi a frutto con volontà e determinazione. Perché il talento, da solo, non basta a farci conseguire risultati importanti e sbagliano coloro che credono ch’esso possa essere sufficiente. In questo modo si fa del talento un mito, una sorta di destino biologico che sorride ai più fortunati, esentandoli dal sacrificio e dalla fatica.

Il destino è già scritto?


Dando credito all’idea che il successo sia un destino già scritto si commette un doppio errore. Da un lato non si riconosce il lavoro necessario a far fiorire il talento; dall’altro si alimenta una cultura degli alibi che deresponsabilizza e impedisce di crescere, edificando dentro di noi limiti e barriere auto-indotte (una sorta d’impotenza appresa): “Se non sono abbastanza dotato è inutile che ci provi, tanto non potrò mai farcela. E, sia chiaro, non fatemene una colpa!”. Come a dire che chi conquista dei risultati importanti lo fa, in fondo, solo perché guidato da un destino più favorevole, senza riconoscere il carico di fatica e di costanza che ha costruito quel trionfo. Senza riconoscere, soprattutto, che quei risultati positivi sopraggiungono, molto spesso, dopo delusioni e sconfitte, germogliando dalla capacità di non mollare, di non arrendersi, di rialzarsi.

Queste veloci riflessioni ci fanno capire che, visto da vicino, il talento non è un monolite, ma un delicato equilibrio di diversi fattori. Una miscela ben assortita di qualità biologiche e spirituali. Accanto alle doti naturali serve, infatti, la capacità di lavorare duro per svilupparle al meglio, la tenacia di non mollare, la volontà di raggiungere qualcosa d’importante. E ci vuole un gran talento nel gestire la fatica, nel non lasciarsi scoraggiare dalle avversità, nell’accettare con umiltà i propri limiti.

Forse sarebbe bene abbandonare il mito del talento e riscoprire la parabola dei talenti. A ciascuno i suoi, senza merito, perché nessuno sceglie il proprio punto di partenza. Ma a ciascuno, anche (e soprattutto), la responsabilità di farli rendere al meglio. Scoprire la propria vocazione ed esserne all’altezza; diventare consapevoli dei propri punti di forza e delle proprie debolezze, lavorando sodo per far rendere quei talenti che altrimenti resterebbero improduttivi. In una battuta: ci vuole molto talento per essere all’altezza dei propri talenti!

Prof.  Francesco Perin

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